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Kolkata 2015: se riesci ad amare qui, a Calcutta, riesci ad amare in ogni dove

Riportiamo la testimonianza di un’amica di Xlestrade che ha avuto occasione di trascorrere negli scorsi mesi un periodo di volontariato a Calcutta, in India. Sono parole profonde, sensibili, preziose. Noi la ringraziamo per averle scritte e per aver dato il suo consenso alla loro pubblicazione.

11940183_918679054863830_1460242464_nCi vogliono mesi per rielaborare un viaggio. Mesi e mesi e forse neanche bastano. Anni, oserei dire.
Forse, nemmeno capirai mai il motivo che ti spinge a partire verso certi luoghi. In quel luogo.
Credo nella vita, ma ancora di più credo nel destino che fa muovere e smuove le cose. Niente avviene per caso. Specialmente un viaggio. Specialmente Calcutta.
Calcutta è un mondo a sé, imparagonabile a qualsiasi altro. Io lo descrivo come un piccolo presepe vivente, in cui puoi trovare nello stesso contesto tante specie di vita che si mescolano e che vanno diritte ognuna verso la propria direzione. Non solo uomini, ma cani, tanti cani, randagi, malati e poi pecore legate ad un palo sul ciglio della strada, lasciate lì quasi a contemplare la confusione che c’è intorno. E poi i tipi, in ogni dove.
Cammino per Sudder Street una miriade di volte, conosco a memoria tutti i negozietti che ci sono lungo la via. Con alcuni negozianti ci diventi pure amico e nonostante al primo impatto gli indiani non sembrano un popolo che ami socializzare, una volta presa la giusta (o forse no) confidenza iniziano a raccontarsi e vogliono sapere tutto di te. Forse sono spinti dalla curiosità di conoscere qualcosa di nuovo, in quanto, molti di essi non hanno altro che il loro baracchino, molti non conoscono neppure la propria età. C’era un ragazzetto che girava sempre per Sudder Street, amico di tutti i volontari, sembrava avesse sulla ventina ma sicuramente avrà avuto molti più anni. Era basso e mingherlino, non si sapeva molto di lui, solo che la maggior parte delle volte era ubriaco, ma comunque restava innocuo.11938995_918679588197110_241383902_n
Con tutti i personaggi che ho conosciuto a Calcutta potrei scriverci un libro. Uno dei più memorabili è sicuramente il venditore ambulante di quotidiani. Appuntamento fisso ogni mattina: lo si vedeva camminare avanti e indietro per le strade con una manciata di quotidiani da vendere. Chissà quanti anni avrà avuto lui e chissà quale sarà stata la sua storia.
Ho sempre pensato che chiunque giungesse a Calcutta è perche avrebbe voluto, in qualche assurdo modo, ricongiungersi con se stesso. Calcutta ti spoglia davvero di ogni tua convinzione mentale per farti ricominciare. Calcutta è da vedere almeno una volta nella vita, non solo da osservare, ma da vedere con gli occhi pieni di consapevolezza, è da vivere.
Ho conosciuto tanti volontari provenienti da ogni parte del mondo, la mattina ci trovavamo tutti alla Casa Madre e poi ognuno si dirigeva verso il centro in cui avrebbe prestato servizio. Sono tanti i centri delle Suore della Carità a Calcutta. Io ho scelto Shanti Dan, un centro di accoglienza diurno e notturno per ragazze e donne con handicap mentali e fisici, suddiviso al suo interno in tanti piccoli gruppi. E anche qui credo che ci abbia messo una mano il destino nel mio percorso. Il centro è un’oasi di paradiso. Dietro quell’immenso cancello blu c’è una stradina che conduce a tante piccole casette circondate dal verde di piccoli giardinetti. Ognuna di queste casette accoglie delle donne o delle ragazze. Nel mio gruppo c’erano una quindicina di ragazze, ognuna di esse con un proprio problema, ma soprattutto con una propria storia, con un proprio vissuto. La maggior parte di esse non parlavano, se non con pochissimi cenni. La ragazza alla quale ero più affezionata si chiamava Tamara. Era sulla sedia a rotelle, era robusta con braccia grosse che faceva fatica a muovere e nel suo viso trasparivano poche emozioni.
Un giorno ho provato a parlarle, prima in inglese, per quel poco che conosceva credendo di ricevere una risposta. Poi, imperterrita, ho proseguito, ho iniziato a parlarle la mia lingua e ad utilizzare il linguaggio del cuore. Le ho parlato di me, della mia vita, dei miei sogni che a lei magari nemmeno interessavano. Ma non lo so, lei mi guardava. È stato uno dei momenti più emozionanti di sempre.
La domenica le portavamo tutte nel giardino, le pettinavano e le davamo lo smalto, poi giocavamo con loro, fino all’ora del chai con gli altri volontari.
11944516_918678818197187_1250598336_nCiò che più mi ha lasciato senza parole, però, erano delle donne, quelle stesse donne che camminavano avanti e indietro nel terrazzo sovrastante le stanze delle ragazze. Erano donne ex carcerate con problemi psichici di grande rilevanza. I volontari non potevano avvicinarsi a loro se non accompagnati dalle suore.
Quando dovevamo stendere il bucato delle ragazze salivamo le scali che ci portavamo all’ultimo piano in cui vi era un grande terrazzo dove stendevamo i vestiti. Nella strada che percorrevo, al secondo piano, c’era una porta a sbarre dalla quale sbucavano alcune di queste donne. Erano sul terrazzo che si affacciava al giardinetto, lo stesso in cui la domenica mattina coccolavamo le ragazze. Loro invece sempre lì, giorno dopo giorno. Nelle varie sbarre vi erano delle corde alle quali venivano legate,sicuramente, quelle con problemi con più gravi.
Io mi fermavo, talvolta, a parlare con loro. Io di qua e loro di la, con delle sbarre lunghe tra noi che ci dividevano. Non ci capivamo ma mi fermavo lo stesso, ed era come se ogni volta che mi vedessero, volessero raccontarmi la loro storia. Allungavano le loro mani tese a cercare le mie.
Non avevano niente. Non aspettavano niente e nessuno.
Ho passato due settimane a Shanti Dan, tutte le mattine ed ogni volta, seppur arricchita di storie e di emozioni, tornavo sempre più stanca fisicamente e psicologicamente per quello che vedevo, per quello che sentivo.
Tante le domande che sovrastavano la mia mente. Decisi che il mio periodo di volontariato a Shanti Dan sarebbe dovuto finire. È stata un’esperienza bellissima, ma il mio fegato aveva sopportato tanto e i miei occhi avevano visto fin troppo.
Nel frattempo tra le strade di questa assurda città conobbi delle persone, che sarebbero diventati i miei compagni di viaggio per il periodo che mi restava da vivere a Calcutta. Essi lavoravano in uno slum con un’associazione italiana.
Spinta dalla curiosità e dal volere sempre provare ogni situazione decisi di andare con loro, una mattina, per vedere con i miei stessi occhi, ciò che a loro faceva battere il cuore. Mi ritrovai in uno slum, in uno dei tanti slums di Calcutta, a giocare con i bambini. Dei bambini a cui è stata negata un’infanzia felice. Dei bambini che vivono in delle baracche l’uno vicino all’altro. Dove le “case” ,tra loro, non hanno confine.
Andavamo allo slum ogni mattina e i bambini ci correvamo incontro urlando i nostri nomi. A ridosso del fiume vi era una stanza, presa in gestione dall’associazione “A mano, a mano-gocce nell’oceano”, guidata da una grande donna che ha saputo mettersi in gioco e dare ai bambini un piccolo spazio dove essi possono giocare, divertirsi ma ancora di più sognare. Dove essi possono essere bambini.
Insieme ai miei compagni di viaggio ho vissuto due settimane intense allo slum, ho raccolto nella mia mente e11938699_918678781530524_1005548471_n nel mio cuore storie tristi e di disperazione, storie andate a buon fine e storie dalla fine tragica. Ho ricevuto sorrisi da quei visi innocenti che non sanno ancora cosa aspetta loro fuori di lì. O forse lo sanno, lo sanno eccome. Sono bambini già grandi a causa dei brutti scherzi a cui la vita li ha sottoposti. Sono bambini che lotterebbero con tutto se stessi per un pezzo di pane e bambini ai quali la vita non toglierà mai la dignità di essere tali.
Calcutta mi ha insegnato che si può sempre ricominciare da ogni luogo e in ogni tempo e che non è mai il momento di porre la parola “fine”. Calcutta mi ha insegnato che se un uomo non ha gambe per camminare, ha occhi per vedere e orecchie per ascoltare e che, quindi, la sua vita va avanti. Calcutta mi ha insegnato a camminare a testa alta e che il coraggio non è tutto, piuttosto la dignità.

Articolo a cura di Ilenia Lazzarini